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Al Coronavirus non importa della tua nazionalità
All’inizio della forte diffusione del Coronavirus a Wuhan, specialmente da parte di alcuni paesi e da un certo tipo di stampa, si parlava del Covid-19 come del “virus cinese”.
Da allora, man mano che i contagi si sono propagati fino ad arrivare in Occidente, un paese dopo l’altro, ha perso il controllo sulla situazione.
Gli altri stati, anziché “sfruttare” il vantaggio di non avere ancora dati allarmanti, hanno portato avanti politiche negazioniste o addirittura “spaccone”, anziché agire in modo intelligente e prepararsi per arginare il disastro imminente. Ora lo abbiamo capito: al Coronavirus non importa della tua nazionalità.

Al Coronavirus non importa della tua nazionalità
La convinzione di non fare la stessa fine degli altri
Ma per quale motivo? Serpeggia forse, in un’epoca in cui i nazionalismi la fanno da padrone, l’idea implicita che, o per dotazioni nascoste, o per capacità organizzative e gestionali si sia sempre meglio degli altri?
Ebbene, oggi la pandemia chiarisce che non esiste un virus “cinese”, “africano” o “italiano”. Esistono feroci virus che colpiscono gli esseri umani. Toglietevi dalla testa che a voi, non possa capitare. Non solo è pericoloso, ma non tiene nemmeno conto del dato di realtà.
In generale, non considerare il dato di realtà, è estremamente pericoloso nella vita.
La crisi è un’insegnante crudele. Durante i periodi di emergenza, quando le persone abbassano la guardia, si può scorgere la faccia scura della luna.
Spesso quello che scopriamo è tutt’altro che bello.


Etichettare il virus come limitato ad un paese o ad una nazionalità
Questo punto è stato dolorosamente chiarito quando, invece di cogliere l’occasione per unire e abbracciare un crescente spirito di generosità e solidarietà che da un certo punto in poi, ha interessato tutto il mondo, il presidente degli Stati Uniti ha scelto di etichettare pubblicamente il Covid-19 come “virus cinese” o “virus di Wuhan “.
Per molti, questa persistente caratterizzazione errata, ha infranto ogni speranza rimasta che forse, questa volta, si potesse fare di meglio rispetto al passato.



Il caso Ebola
Ad esempio, gli africani hanno assistito allo stesso fenomeno. In passato, diversi paesi, hanno attaccato una nazionalità o etnia, come “colpevole” e responsabile della diffusione di un virus.
Oltre al virus stesso, l’unica novità è che ora è l’Asia, e non l’Africa, a essere vittima di questa xenofobia malevola.
Gli africani hanno sopportato per decenni quella che potremmo chiamare la viralizzazione del continente, persino dei loro stessi corpi (se pensiamo anche agli sbarchi nel Mediterraneo).
Una serie di terribili malattie, l’Ebola tra le più importanti, sono state designate come “malattie africane” nella coscienza collettiva.



Per il resto del mondo, l’epidemia di Ebola che si è verificata dal 2014 al 2016, è stata poco più di una lontana preoccupazione che ha interessato solo gli addetti ai lavori e gli stranieri che con diversi mandati, lavoravano sul campo. E’ vero che ha dominato il ciclo delle notizie per alcune settimane e decine di migliaia di persone sono morte, ma poi tutto è finito nell’oblio.
Le “potenti” vittime
Ora, mentre il mondo entra in azione per contenere il Coronavirus, molte regioni trattano la pandemia con urgenza, solo perché diverse nazioni potenti ne stanno cadendo vittima.
Tuttavia, al di fuori di questa confusione, è necessario compiere uno sforzo globale per cambiare il modo in cui pensiamo, parliamo e comprendiamo la malattia.
La lezione che molte persone devono ancora imparare è che la malattia è qualcosa che affligge il corpo umano, non il corpo cinese, il corpo africano o il corpo occidentale.
Nel momento in cui una malattia è regionalizzata, l’umanità viene cancellata, nel tentativo disonesto e pericoloso di ridursi ad una nazionalità.
Forse c’è una base psicologica più profonda, mentre cerchiamo di proteggerci mentalmente da qualsiasi cosa possa farci del male.



Probabilmente, questa è semplicemente una delle innumerevoli manifestazioni del razzismo, che si possono trovare praticamente in ogni angolo di attività e interesse umani.
L’insegnamento da trarre
L’epidemia di Covid-19 è la prova che al virus non importa chi sei, da dove vieni, quanti anni hai o quanto sei ricco.
E per coloro che pensano che questa epidemia dipenda dalla globalizzazione perché ora “tutti viaggiano”, occorre sottolineare che il mondo è sempre stato globalizzato, poiché commercianti, imprenditori e studiosi, da sempre hanno messo in contatto cultura e beni reciproci.
Ciò che invece è cambiato, è che questa particolare pandemia si è verificata in un momento in cui stiamo assistendo a un profondo cambiamento nel modo in cui pensiamo all’Altro.
I social media ci consentono di vedere e ascoltare persone da tutto il mondo in tempo reale. Possiamo vedere la devastazione, ma anche la celebrazione.
Non possiamo più pensare alle vite e alle lotte degli altri, come indipendenti o isolate dalle nostre.
Non possiamo più relegare la loro sofferenza a una serie di sintomi la cui causa più profonda, è estranea al mondo in cui viviamo.
Quando pensiamo alla pandemia che sta vivendo il mondo, occorre pensare ai corpi che sono affetti da questo virus.
È dannoso per il benessere di tutti, fingere che un virus sia africano, cinese, italiano o francese.
Ma questo va ben oltre i disturbi fisici.
Si deve arrivare ad una comprensione collettiva, ovvero capire che i mali sociali, le sfide economiche e l’incombente problema ambientale, appartengono a tutti noi.
Marzia Parmigiani
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